Scuola
della Parola Parrocchiale: secondo incontro
GIOBBE E GLI AMICI
Mercoledì
26 settembre 2011 il biblista don Matteo Crimella ha tenuto il
secondo incontro della Scuola della Parola parrocchiale su “Giobbe
e l’enigma del dolore”, commentando i capitoli da 4 a 7 del libro
bibilico. Ne riportiamo il testo integrale.
Avendo a disposizione solo tre incontri per assaggiare il
libro di Giobbe, non è possibile leggere con attenzione tutti
i dialoghi fra Giobbe e i suoi amici, né tantomeno comporre un’antologia
dei passi più significativi. Ci limiteremo a considerare il primo
intervento di Elifaz di Teman (cap. 4-5) e la risposta che ne
dà Giobbe (cap. 6-7). Accennerò poi in breve al contenuto dei
discorsi di Bildad, di Sofar e a quanto emerge dalle parole di
Giobbe. Ciascuno è invitato poi a leggere personalmente questi
intensi dialoghi.
Il
primo amico che prende la parola dopo il monologo di Giobbe (cfr.
Gb 3) è Elifaz di Teman. Il suo nome e il luogo della sua provenienza
rimandano alla regione di Edom (cfr. Gen 36,4.10-11.15). Come
Giobbe e gli altri due amici, anche Elifaz non è israelita; si
tratta forse del più anziano dei tre amici (cfr. Gb 15,10). Da
quanto dice si evince che Elifaz è un uomo che ha riflettuto a
lungo sulle grandi domande dell’esistenza. I suoi discorsi sono
articolati, sfumati, per niente caricaturali: è il difensore del
buon senso e del giusto mezzo.
L’inizio del suo discorso è pieno di rispetto per Giobbe: Elifaz
realizza di avere di fronte a sé un uomo giusto che teme Dio e
il cui comportamento è integro. Insieme, però, Elifaz non attendeva
uno sfogo così tumultuoso e per questa ragione interviene. Incomincia
con una riflessione personale (4,2-7), fa appello alla propria
esperienza (4,8-11), ricorre poi ad una rivelazione che ha ricevuto
dall’alto (4,12-21); di nuovo fa appello all’esperienza (5,1-7),
per offrire un consiglio personale all’amico Giobbe (5,8-16);
conclude con una beatitudine che gli dà la possibilità di un’amplificazione
(5,17-27). Ripercorriamo il discorso di Elifaz.
Colui che consolava i miseri e i sofferenti ora è angosciato perché
la sventura si è abbattuta su di lui. E tuttavia se Giobbe davvero
è giusto, custodisca intatta la sua speranza perché Dio non si
accanisce sull’uomo giusto: «Ricordalo: quale innocente è mai
perito e quando mai uomini retti furono distrutti?» (4,7). Si
tratta della classica tesi della retribuzione: se fai il bene
Dio ti premia, se compi il male Dio ti castiga! Ma Elifaz non
si accontenta di suggerire all’amico le sue riflessioni e di raccontare
a Giobbe la propria esperienza. Egli comunica all’uomo sofferente
che gli sta di fronte il contenuto di una rivelazione notturna
che ha ricevuto (4,12-21): qualcosa che gli è stato sussurrato,
quasi suggerito all’orecchio proprio da Dio. Si tratta dunque
di una parola cui accordare la massima fiducia proprio perché
manifestazione divina proveniente dai cieli. Ebbene, la rivelazione,
in breve, così dice: nessuna creatura umana può pretendere di
essere pura di fronte a Dio (4,17); Dio trova difetti addirittura
negli angeli, figuriamoci nell’uomo mortale! È il tema della finitezza
dell’uomo o, forse, quello della radicalità del male che alberga
nel suo cuore. Il discorso è rivolto in maniera implicita ma nemmeno
troppo nascosta proprio a Giobbe. Se quest’uomo non accogliesse
un simile messaggio, mancherebbe di sapienza e non troverebbe
nessuno, nemmeno in cielo, disposto ad ascoltarlo. Morirebbe semplicemente
per la propria stupidità, perdendo tutti i suoi beni, arrabbiato
con se stesso e prigioniero della propria stoltezza (5,1-7).
A
Giobbe non resta che una soluzione: presentare la sua causa a
Dio stesso. Elifaz intende convincere l’amico e lo consiglia con
calore: «Io, invece, mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia
causa» (5,8). Quasi a dire: “Se fossi al tuo posto farei così!”.
Poi Elifaz intona un vero e proprio inno a Dio creatore: l’Altissimo
è capace di mutare radicalmente i piani dell’esistenza umana,
manda all’aria i progetti dei sapienti e rialza da terra l’umiliato
(5,8-16). Se è così Giobbe non deve temere: troverà l’antica felicità
che ha perso. Addirittura potrà dirsi beato in quanto è stato
corretto da Dio: «Perciò, beato l’uomo che è corretto da Dio:
non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli ferisce
e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (5,17-18). Il
ragionamento sembra filare via dritto, senza intoppi, a patto
che Giobbe ammetta di mancare di sapienza e riconosce che i suoi
mali sono una dolorosa lezione che Dio gli infligge per il suo
bene.
Che cosa intende dire Elifaz? Giobbe, per quanto si senta e si
dichiari innocente, tuttavia non è proprio così puro: riconosca
il male che ha compiuto e Dio lo salverà, ridonandogli quella
felicità che ha perso. Ancora una volta emerge la tesi della retribuzione,
una tesi imparata a scuola, come afferma lo stesso Elifaz: «Ecco,
questo l’abbiamo studiato a fondo, ed è vero. Ascoltalo e imparalo
per il tuo bene» (5,27). In breve: nessun uomo è felice, la sventura
colpisce il peccatore mentre il giusto vive felice. Sono questi
gli argomenti, le idee che Elifaz ha sfoderato in risposta a Giobbe.
Il tono di Elifaz è personale. Parla in seconda persona, intendendo
così consolare l’amico Giobbe. Gli dà consigli, lo tratta con
rispetto e con affetto; è quasi preoccupato per quell’uomo che,
nell’eccesso della sofferenza, si sta perdendo. Eppure, nonostante
le buone intenzioni, Elifaz non esce dai propri schemi mentali;
è prigioniero di un’ideologia, di una spiegazione quasi geometrica
della realtà. Paradossalmente, mentre Elifaz si appella a «ciò
che ha visto» (4,8; 5,3), di fatto non guarda in faccia la realtà,
accecato dalla forza della teoria della retribuzione. Sembra quasi
che le sue idee siano più vere di quanto vede. Così Giobbe, l’amico
che patisce, diventa trasparente, diafano, invisibile. Elifaz
perde il suo contatto con lui, preferendo salvare una teoria che
ha appreso a scuola e da cui non riesce ad emanciparsi.
Che
cosa ribadisce Giobbe? La risposta è in tre parti. Il povero Giobbe
apre la sua bocca e per ben tre volte si lamenta per la sua difficile
situazione (6,2-7.14-20; 7,1-6). Interroga poi gli amici (7,7-21)
ma soprattutto interroga Dio: prima in modo implicito (6,8-13),
in seconda battuta in modo sempre più esplicito (7,7-21). Giobbe
non ne può più. Conosce non solo la sofferenza, ma pure la nausea,
lo svuotamento interiore, l’assoluta mancanza di senso. Quando
qualcosa di grave raggiunge un uomo la prima reazione è l’urlo:
benché con tono acceso, tuttavia la persona cerca di dare un senso
simbolico a quanto vive, proprio attraverso la parola. In un secondo
momento chi crede prega, ancora una volta cercando uno spazio
simbolico dove ricomporre il suo dolore. Infine v’è il silenzio,
un silenzio solenne, importante, più eloquente di tante parole.
Giobbe riapre la sua bocca dopo aver taciuto non per paura o per
vigliaccheria ma perché abbattuto dal dolore. Ora, aprendo la
bocca, una cosa sola gli è chiara: Dio l’ha colpito, l’ha avvelenato,
l’ha terrorizzato: «Le saette dell’Onnipotente mi stanno infitte,
sicché il mio spirito ne beve il veleno e i terrori di Dio mi
si schierano contro!» (6,4). Ecco allora la sua preghiera: Dio
lo finisca, lo schiacci senza indugiare perché non ne può più:
«Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Questo
sarebbe il mio conforto, e io gioirei, pur nell’angoscia senza
pietà, perché non ho rinnegato i decreti del Santo» (6,9-10).
Il disgusto dell’esistenza conduce Giobbe a desiderare la morte.
Degli amici Giobbe è deluso. Elifaz ha parlato a nome di tutti,
senza mostrare alcun segno di compassione nei suoi confronti.
Giobbe li accusa di non temere Dio, proprio perché l’attenzione
al prossimo è il segno di una fede autentica. Ecco la sua accusa:
«I miei fratelli sono incostanti come un torrente, come l’alveo
dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano
allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono
e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,15-17). Giobbe non
chiedeva molto agli amici: non domandava i loro beni, non cercava
raccomandazioni, non voleva protezione; invocava solo un po’ di
consolazione. Essi invece, per bocca del Temanita, hanno messo
in dubbio la sua integrità senza portare nemmeno una prova. Hanno
posto sotto accusa le sue parole disperate, ma in questo modo
lo insultano. Che lo guardino in faccia: lui è sicuro del suo
buon diritto.
Deluso dagli amici Giobbe ricomincia a parlare a se stesso in
un disperato monologo (7,1-6). Parla in terza persona, quasi per
prendere distacco da sé, ma insieme per dire l’universalità di
quanto sta vivendo in prima persona. Egli è diventato come uno
schiavo costretto ai lavori forzati sotto il sole e in cerca di
un po’ d’ombra. La notte per lui è lunga: invece del riposo sono
i sospiri a tenerlo desto e quando si leva al mattino vorrebbe
che già fosse sera. La morte, insomma, è vicina.
A questo punto Giobbe si rivolge a Dio, come Elifaz gli aveva
consigliato. Ma Giobbe non si umilia di fronte a Dio; al contrario
diventa sempre più aggressivo e se la prende con chi lo sta colpendo
(7,7). Giobbe sente vicina la fine: la sua esistenza è come un
soffio, ma finché è in vita Giobbe vuole urlare a Dio che lo tratta
in quel modo. Gli sta addosso come un segugio, non gli lascia
prendere fiato, lo spaventa nottetempo con sogni orrendi (7,11-15).
Preferirebbe essere dimentico da Dio che essere maltrattato in
quel modo.
Qual è l’apice del discorso? Sono i vv. 17-19 del capitolo 7,
una vera e propria parodia amara del Sal 8. Il salmo diceva: «Quando
vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che
tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco
meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,4-6).
Il salmo canta le meraviglie della creazione al cui centro v’è
l’uomo. Quanto è differente il controcanto di Giobbe: «Che cosa
è l’uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua
attenzione e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta
alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non
mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,17-19). Altro che stupore!
Che cosa è mai l’uomo per essere perseguitato in quel modo? Che
cosa ha fatto per essere perseguito come fosse un delinquente?
Dio sembra essere uno spietato controllore, un feroce aguzzino
che si avventa sul prigioniero. V’è forse una colpa che possa
far meritare tutto questo? V’è forse un peccato che giustifichi
frecce così amare? Dio non è più il salvatore ma il persecutore.
L’uomo coronato di gloria e di onore non è altro che una vittima
ferita a morte. Mentre nei salmi l’orante domanda la protezione
e la custodia di Dio, Giobbe chiede che Dio s’allontani; mentre
quelli supplicano di scampare dalla morte, Giobbe vi aspira e
vorrebbe solo un attimo di tranquillità per respirare.
Come interloquiscono con Giobbe gli altri amici? Cerco di offrire
un breve schizzo di quanto dicono Bildad e Sofar. Bildad è più
giovane di Elifaz, in ogni caso più violento e ricorre ad un’ironia
più pungente. È più eloquente e meno sfumato di Elifaz; il suo
pensiero è lineare e quasi militaresco. Bildad sembra rappresentare
una variante significativa della teologia della retribuzione,
una variante più vicina alla sapienza che si ispira al diritto
sacrale legato all’istituzione dell’alleanza: alla fedeltà dell’uomo
corrisponde la benedizione, all’infedeltà invece la maledizione.
Basti un esempio:
Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui,
li ha abbandonati in balia delle loro colpe.
Se tu cercherai Dio
e implorerai l’Onnipotente,
se puro e integro tu sarai,
allora egli veglierà su di te
e renderà prospera la dimora della tua giustizia;
anzi, piccola cosa sarà la tua condizione di prima
e quella futura sarà molto più grande (8,4-7).
Più che a schemi teologici, Bildad si rifà all’esperienza e alla
tradizione degli antichi: la storia dimostra la fedeltà di Dio
alle sue leggi e alla sua giustizia. Ancora una volta si rinuncia
a guardare alla realtà: pare che quanto si dice da sempre valga
di più di quanto si vede.
Sofar, il terzo amico, è il più violento e cinico. È così convinto
della giustezza della tesi della retribuzione che insulta Giobbe:
se quest’uomo soffre è un malvagio, un empio, giustamente punito
per i suoi misfatti. Per Sofar Dio non parla e dunque si sente
in dovere di parlare lui al posto di Dio, con un discorso sicuro
e infallibile che non lascia spazio a null’altro se non alla propria
arroganza.
In sintesi, quali sono le distorsioni teologiche degli amici?
Essi ribadiscono la tesi della retribuzione, con accenti diversi.
In realtà la loro difesa rivela non poche debolezze. In primo
luogo gli amici concludono che se Giobbe soffre allora è un peccatore.
E se la sofferenza avesse una motivazione diversa o un’altra origine,
come il lettore di Giobbe sa bene, visto che conosce il prologo?
In altre parole, se anche fosse possibile prevedere il futuro
a partire dal peccato e dalla giustizia, non è possibile l’inverso:
dedurre cioè dalla sofferenza o dal benessere dell’uomo la sua
colpevolezza o la sua giustizia. In secondo luogo: gli oranti
dei salmi fanno l’esperienza della sofferenza ma pure dell’improvvisa
e gratuita liberazione di Dio. Nel momento in cui stavano maledicendo
Dio, scoprono che Dio li ama e li libera. Gli amici, al contrario,
non conoscono questo dramma e accusano Giobbe di crimini che non
esistono. La vicenda di Giobbe, cioè, mette in crisi ogni sistema
religioso che in nome di un buon principio teologico intende quadrare
il cerchio dell’esistenza dell’uomo, non a spese del sistema ma
spese dell’uomo. Ecco la distorsione teologica. Infine gli amici
hanno una visione meramente mercantile della felicità: Giobbe,
e con lui ogni uomo, potrebbe acquistarla quando desidera, invece
di riceverla in dono da Dio.
Come
risponde Giobbe alle accuse degli amici? La teologia di Giobbe
è indubbiamente diversa e più ricca di quella dei suoi amici soprattutto
perché deve trovare soluzioni nuove e avventurarsi in piste inesplorate.
E tuttavia Giobbe condivide molte affermazioni degli amici; soprattutto
appartiene allo stesso contesto religioso e culturale. In nome
della teologia della retribuzione gli amici proclamano quest’uomo
peccatore. In nome della stessa teologia Giobbe non può che proclamarsi
giusto. Ma proprio qui sta il problema di Giobbe. Finché l’uomo
può essere considerato peccatore, si trova sempre un motivo che
giustifichi il castigo della sofferenza. Ma quando ci si trova
di fronte ad un giusto che soffre (e Giobbe lo è, come Dio stesso
riconosce), allora non rimane che un’alternativa: o si dichiara
il fallimento del sistema teologico, oppure si proclama che Dio
è arbitrario, ingiusto e dispotico.
Inutile nascondere che una simile soluzione non soddisfa nessuno,
nemmeno Giobbe. Da qui il desiderio di Giobbe di dialogare con
Dio. Ecco la vera differenza fra gli amici e Giobbe: gli uni parlano
di Dio, con sicurezza dogmatica, con certezza assoluta. Giobbe
invece parla con Dio e attende da lui una risposta, meglio, attende
che Dio voglia rivolgergli la parola. Se gli amici, i teologi,
sono sicuri del loro concetto di Dio, alla fine si trovano a sistematizzare
idee e concetti, a giocare con le parole. Giobbe invece dialoga,
urla, si interroga, fatica, invoca la morte ma si rivolge a qualcuno,
parla con una persona. Quella persona però – Dio – per il momento
non risponde. E Giobbe attende, cocciutamente fedele alla propria
giustizia. Quest’attesa è lo spazio della speranza, sarà il luogo
dell’agognato colloquio con Dio.
Anche
questa sera, vorrei terminare allegando alcune citazioni. A testimonianza
del fatto che il dramma di Giobbe e dei suoi amici appartiene
ad ogni uomo, ci appartiene.
La prima citazione è tratta da un racconto di Zvi Kolitz, Yossl
Rakover si rivolge a Dio. È la vicenda dell’ultimo ebreo sopravvissuto
nel ghetto di Varsavia, mentre attende la morte dopo che sono
stati uccisi tutti i suoi compagni. In quel momento Yossl prega
Dio con queste parole:
Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato,
per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu
però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste
prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto,
Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi
offendere, mi puoi colpire. Mi puoi togliere ciò che di più prezioso
e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò
sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa
volontà! E queste sono le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo
d’ira: Non Ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi
più fiducia in Te, perché non credessi più, io invece muoio così
come sono vissuto, pervaso di un’incrollabile fede in Te. Sia
lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della
verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo
volto al mondo e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno.
Nella Tua mano, Signore, affido il mio spirito.
La seconda citazione è un celebre testo di David Maria Turoldo,
tratto dal suo testamento poetico e spirituale, Canti ultimi.
Si intitola Tu non sei un dio del male:
Ma tu non ami la morte
Tu sei venuto fra noi
per mettere in fuga la morte
per snidare e uccidere la morte.
Anche
a te la morte fa male
per questo sei amico
di ognuno segnato dal male:
e ogni male tu vuoi
condividere…
* * *
Solo un abbaglio, o equivoco amaro
– quando non sia stoltezza –
fa dire di te che sei
la «divina Indifferenza».
IL
RACCONTO E LA STRADA
Da tre anni la Diocesi di Milano ha fatto spazio nella sua
Liturgia a un nuovo lezionario. Don Angelo Casati in questo libro
ripercorre le letture bibliche che vedono la comunità riunita
nelle domeniche e nelle festività dell’Anno B del ciclo liturgico.
Il suo commento ama scavare nella miniera del Primo e del Secondo
testamento, portandone all’aria aperta dei nostri giorni qualche
pagliuzza dell’oro che vi riluce. (dal risvolto di copertina)
ANGELO
CASATI
Il racconto e la strada
Commento al lezionario festivo
secondo il rito ambrosiano
Anno liturgico B
Centro Ambrosiano,
Milano 2011,
pp. 320, € 19,90
Pensando
di fare cosa gradita riportiamo la Premessa al libro.
Seguo
il rumore dei passi
Intimo
il sentiero
al brivido di luce
del mattino
come quando si chiudono
per amore gli occhi
e ci si racconta nel silenzio.
E tu a raccontarmi del tuo viaggio
nella nostra carne.
Sono lettore innamorato di vangeli, non sono un esegeta, scavo
nelle parole. Mi emoziono quando incontro e posso portare alla
luce l’oro che le abita. Trovo tracce di Gesù sotto polvere di
sabbie, che il tempo e la nostra opacità vi hanno in ampia misura
depositato.
Quando leggo sento il rumore dei passi, sono leggeri, senza fanfare,
senza esibizioni, senza autocelebrazioni che ne rompano l’incanto.
L’incanto della realtà, la realtà della sua persona, del suo Vangelo,
della sua via. La sua via, via dello Spirito, tanto diversa da
tante vie dello spirito che abbiano disinvoltamente chiamate cristiane,
di Cristo.
Seguo il rumore dei passi che porta a una casa. «Dove abiti?».
«Venite e vedrete». I due, iniziatori del movimento, si videro
aprire una casa. Lui non abitava sinagoghe, né abitava palazzi.
Entrarono, erano tutt’occhi per vedere, erano le quattro del pomeriggio:
quella luce sulle cose di casa e sul suo volto niente e nessuno
l’avrebbe più cancellata, impigliata per sempre nel più profondo
dei loro occhi.
Qui mi ha portato il rumore dei suoi passi. E mi pento di essermi
al lungo illuso di sapere di lui leggendo dissertazioni teologiche,
illuso che lo avrei potuto conoscere senza abitare la sua casa,
molto più che nei luoghi cosiddetti sacri.
La casa è più umana, nella casa si può smarrire una moneta e passare
ore a cercarla e chiamare le donne del vicinato a far festa quando,
dopo tanto frugare, è uscita dalla penombra agli occhi. Nella
casa succedono gli inciampi, succedono anche le nostre fragilità,
le nostre debolezze, succede di smarrire una moneta.
Nelle istituzioni immobili no, tutto procede senza scarti, dall’inizio
alla fine, tutto deve filar liscio, roba da mostri sacri. Lui
lontano anni luce dal posare come un mostro sacro. E senza un
grumo di simpatia, un grumo che è un grumo, verso i mostri sacri.
Uno come è lo conosci sulla strada. Lui camminava su sabbie di
strada, ai suoi piedi non rosso di tappeti in attesa, né la vita
imprigionata nell’immobilità delle cerimonie, ma la vita, con
l’odore della vita. E lui a raccontarci su sabbie di strada il
suo viaggio nella nostra carne. Lui a raccontare con il suo modo
di stare al mondo, con le impronte dei suoi piedi, con parole
che accendevano gli occhi e l’anima. Il racconto divenne scrittura.
Sacra. La sfioriamo venerandola con gli occhi e le mani. Venerandola
con la vita.
UNITI
NELL'ARTE SOLIDALE
Tra
le iniziative che la nostra parrocchia ci propone per vivere il
Natale in sintonia con il Mistero che celebriamo – quello di un
bambino, che entra poveramente nella storia - anche quest’anno
c’è la possibilità di aiutare decine di bambini e ragazzi ad accedere
a programmi didattici e ricreativi, che gli permettano di sviluppare
le proprie potenzialità, mettendo ali ai loro sogni e aprendogli
prospettive di futuro.
Riprendendo quindi lo stile che ci ha caratterizzato negli ultimi
anni e rinunciando all’uso di manifestare auguri e affetto soltanto
nella logica, ormai fuori controllo, del consumismo, la proposta
è di regalare invece un “gesto di solidarietà”. Vale a dire, di
contribuire alla crescita di quel progetto nato, tre anni fa,
come Biblioteca per ragazzi (a Nueva Concepción, Dip. di Chalatenango,
in El Salvador) e ormai trasformatosi in vero e proprio centro
di aggregazione culturale, con corsi di disegno, matematica, chitarra,
animazione... e un angolo dei racconti, dove i bambini e i ragazzi
– guidati da alcuni studenti volontari – ascoltano e scrivono
racconti, che poi rappresentano loro stessi.
Il progetto, ideato e seguito dal Gruppo “O. Romero”, presente
mensilmente nella nostra parrocchia con il Banchetto Equo-Solidale,
conta, infatti, sulla collaborazione di un gruppo di giovani educatori
(teatranti “di strada”) della Caritas diocesana di Chalatenango
e di maestri delle scuole locali, che recentemente hanno messo
a disposizione i locali del Centro e la loro creatività per realizzare
una Serata artistica dal titolo “Uniti nell’arte solidale” per
aiutare gli alluvionati dalla Tempesta Tropicale che ha distrutto
le abitazioni e i raccolti di intere comunità, tra cui quella
di Nueva Copapayo con cui il nostro Gruppo è da anni gemellato.
Concretamente faremo così: a chi vorrà partecipare, portando in
Segreteria parrocchiale il proprio contributo, corrispondente
al regalo (o regali) che desidera fare, verrà consegnata una (o
più) confezione, costituita da sacchetto di stoffa tessuta a mano,
contenente un portachiavi policromo in legno, realizzato dagli
artigiani salvadoregni e un depliant con la presentazione dei
nostri progetti.
La
raccolta e distribuzione inizieranno da lunedì 28 novembre.
VENDITA
DI PRODOTTI
DEL
COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
sabato 19 e domenica 20 novembre
da sabato 10 dicembre a domenica 18 dicembre
ingresso da via Nöe
da lunedì a venerdì: dalle ore 16 alle 18
sabato: dalle ore 17.30 alle ore 19
domenica: dalle ore 9 alle 13 e dalle ore 17 alle 19
AVVENTO
DI CONDIVISIONE
Ma quanti sono ancora i telefoni cellulari che giacciono ancora
inutilizzati nelle nostre case? Si tratta di oggetti la cui vita
media non supera i due anni e per questo vengono dimenticati in
un cassetto, anche perché non si sa mai bene dove buttarli.
Oggi grazie al Magis (Movimento e Azione dei Gesuiti Italiani
per lo Sviluppo) questi oggetti acquisiscono un nuovo valore grazie
al riuso da parte di una società specializzata che assicura al
Magis un corrispettivo per ogni cellulare ricevuto dall'Italia.
Gli
introiti ricavati da questa raccolta verranno utilizzati per finanziare
la costruzione di cucine solari in Ciad.
Continuiamo a raccogliere in Oratorio i cellulari usati (non i
caricatori).
Potete
portali nel pomeriggio,
dalle 15 alle 18 e 30
e porli nell’apposito scatolone
IL
NOSTRO NATALE
Sabato
17 dicembre ore 17,30
Per i ragazzi ritrovo in oratorio
ORE 18.00 S. MESSA DEI LUMI
Lunedì
19 dicembre ore 19,30
Cena e preghiera di Natale
per tutti i ragazzi delle medie, superiori e università
Lunedì
19 - martedì 20 – mercoledì 21 dicembre ore 17.00
in Chiesa
Preghiera di preparazione al Natale
per i ragazzi del catechismo
Martedì
20 dicembre ore 21.00
in Chiesa
Celebrazione del Sacramento della Penitenza
con preparazione comunitaria
L’oratorio
rimarrà chiuso
dal 23 dicembre all’8 gennaio inclusi
SABATO
24 dicembre
dalle ore 16 i sacerdoti sono disponibili per le confessioni
ORE
18.00 S. MESSA DELLA VIGILIA
ORE 23.30 VEGLIA DI NATALE CON CONCERTO
ORE 24.00 S. MESSA NELLA NOTTE SANTA
SEGUIRÀ IN ORATORIO LO SCAMBIO DEGLI AUGURI
DOMENICA
25 DICEMBRE NATALE
Le S. Messe seguono l’orario festivo
LUNEDÌ
26 dicembre S. Stefano
Le S. Messe saranno alle ore 8.30 - 11 - 18
Le
S. Messe feriali seguono l’orario consueto
SABATO
31 dicembre
alle ore 18.00 S. Messa con il canto del Te Deum
DOMENICA
1° gennaio 2012
Le S. Messe saranno alle ore 8.30 - 11 - 18
alla S. Messa delle ore 18.00 il canto del Veni Creator
VENERDÌ
6 gennaio Epifania
Le S. Messe saranno alle ore 8.30 - 11 - 18
DOMENICA
8 gennaio
Si riprende il consueto orario festivo: 8,30 - 10 - 11 - 12 -
18
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